Giuseppe Bezza

Estasi e malattie dell'animo.
Una visione iatromatematica.

Testo presentato a Perinaldo, il 30 Agosto 2001, al convegno "Le vie dell'estasi"
organizzato dalla Società Italiana per lo Studio degli Stati di Coscienza (SISSC)

  Nel corso del medioevo, i dottori della Chiesa, da Alberto Magno a san Tommaso, da Duns Scoto a san Bonaventura, accettarono l’arte e le tecniche astrologiche. Il ripetuto adagio astra inclinant, non necessitant viene sovente citato a indicare che l’astrologia altro non è che un’arte del possibile. Pertanto, gli stati psichici e morali, più che le costituzioni corporee individuali che i moti degli astri e l’aspetto sempre cangiante del cielo raffigurano, sono assimilabili, e furono assimilate, a forme retoriche. E queste forme possono essere intese come archetipi o simboli o come segnatura di fatti o processi reali, in un modo non dissimile dall’argomentazione di quegli erboristi che dissero, ad esempio, che l’euforbia ha analogia con l’occhio per la sua forma e il suo colore.

  In verità, quei dottori della Chiesa riconoscevano la realtà degli influssi degli astri, ovvero la causalità specifica del loro influsso, ma questo influsso era circoscritto al mondo naturale corporeo. L’animo umano, le inclinazioni e la moralità individuali non erano ritenute avere un rapporto con il moto dei cieli. Si ammetteva, in altre parole, che il corpo, non potendo essere motore di se stesso, seguiva per necessità il moto degli astri; non però l’animo, che ha in se medesimo il principio del proprio movimento. Veniva così posta una dicotomia tra animo e corpo che nasceva in modo conseguenziale dalle coppie di opposti: forma/materia, razionale/irrazionale. Si tratta di una dicotomia dai contorni netti e che comporta alcune conseguenze. Fra queste, quella che interessa maggiormente notare non è tanto la legittimità della professione astrologica, da parte di chierici e monaci, senza contravvenire alla divina provvidenza e al libero arbitrio, quanto piuttosto il distacco dell’arte medica da ogni questione che portasse sulla psiche e sui suoi stati morbosi. Infine, fatte salve poche eccezioni individuali che non crearono scuola, una siffatta dicotomia ebbe il risultato di ritardare, vuoi di impedire, segnatamente in Occidente, la nascita di una psicologia medievale che non fosse costretta entro i limiti angusti di una speculazione teologica cristiana.

  Nella letteratura medica greca, il primo a distinguere tra malattie psichiche e somatiche è l’anonimo di Londra, il cui testo papiraceo risale al II secolo dopo Cristo, ma che è comunque ritenuto anteriore a Galeno. Ma questa distinzione ha soprattutto un carattere funzionale. Nei testi ippocratici una tale distinzione è assente. Anzi, poiché il sangue è ritenuto il veicolo della phronêsis, che potremmo tradurre “sanità mentale”, il trattato ippocratico sui venti dice: “Finché il sangue dimora nella sua costituzione, anche la sanità mentale dimora intatta” (VI Littré 110). La sanità mentale viene quindi intaccata da una cattiva costituzione del sangue, ovvero da una patologia somatica, umorale. La patologia psichica interverrà poi in un secondo tempo, come deuteropatia. Deuteropatie sulle quali si soffermarono spesso i medici dell’antichità, ad esempio Galeno, quando rilegge la descrizione che Tucidide dà della peste di Atene: dall’estrema varietà delle secrezioni, che colmavano nella sua interezza il catalogo ippocratico, alla perdita di conoscenza e ai deliri. Potremmo forse comprendere questa concezione unitaria delle patologie se pensiamo che i trattamenti preventivi della moderna medicina, le chemioterapie in particolare, ci hanno aiutato a far cadere nell’oblio l’impressionante drammaturgia allucinatoria, delirante, catalettica o furiosa che contrassegnava, nei tempi passati, il decorso di alcune malattie somatiche.

  Al modo stesso che alcuni filosofi si chiedono oggi se non vi sia un pensiero matematico al di fuori del cervello umano, ovvero se la struttura matematica del cosmo non sia di per se stessa il segno di una presenza di un’intelligenza macrocosmica, a questo stesso modo Ippocrate, o chiunque vogliamo che sia l’autore della malattia sacra, afferma che ciò che fornisce pensiero al cervello è l’aria che ci circonda: “Vi è pensiero in tutto il corpo nella misura in cui partecipa dell’aria e nondimeno il cervello è il messaggero della conoscenza” (16, 3). Il cervello è quindi inteso come lo strumento di passaggio dal significante al significato, è “l’interprete del conoscere”. Ma vi è di più: l’autore della malattia sacra definisce la conoscenza come un processo fisico, poiché il fatto del conoscere dipende dalla qualità fisica del cervello: quando egli dice che “diventiamo maniaci a causa dell’umido, poiché quando il cervello è più umido della norma, necessariamente si agita”, vuole intendere che la costituzione fisica del cervello, la sua proporzione di flegma, bile, calore, secchezza, freddo, umido, si contrappone, come qualità del ricettore, al fenomeno di irruzione e di sedimentazione delle qualità dell’aria.

  Nella Grecia omerica si riteneva che l’uomo pensasse i suoi pensieri, sentisse le proprie emozioni ed impulsi nel suo cuore, ma più comunemente nelle sue phrenes. Con questa parola, che è all’origine di tanti termini composti del lessico della psichiatria, che era appunto chiamata, con termine ora desueto, freniatria, la scuola ippocratica nel V secolo avanti la nostra era designa il diaframma. E lo stesso farà poi Platone nel Timeo (70A). Il diaframma è quella membrana a forma di cupola, convessa al centro, che separa il torace dall’addome e si contrae e si dilata con la respirazione. Quantunque l’etimologia di phrenes sia incerta, phrên indicava all’origine il fremito, il sussulto, quindi il luogo del corpo ove si produceva (il diaframma) e le diverse emozioni. In Pindaro, Teognide, nei tragici le qualità e condizioni delle phrenes sono qualità e condizioni dell’animo umano. Esse pertanto si muovono e, possiamo ben dire, sentono prima che il flusso delle emozioni, veicolato dal sangue, giunga ad alterare i tratti del viso. Così ci possiamo spiegare perché i poeti danno alle phrenes diversi colori, che tendono ora al bianco, ora al nero e che precedono i colori dell’incarnato, i quali rivelano le passioni dell’animo, così come lo stimolo precede le sensazioni, il pensiero le azioni.

  L’affezione delle phrenes è la phrenitis, che possiamo rendere con delirio. Essa è una malattia interna, che compete alla medicina generale. Celio Aureliano, nel V secolo dopo Cristo, così ce la descrive: “Si chiama phrenitis in quanto provoca difficoltà di pensiero, al modo stesso che la dissenteria e la disuria traggono il loro nome dal provocare imbarazzo per il ventre o per l’urina. Giacché i Greci avevano chiamato phrenes i pensieri (mentes), che sono appunto oppressi dalla phrenitis” (malattie acute, 4). La phrenitis può essere accompagnata a febbre, e allora ha forma acuta, o senza febbre, ed è cronica. Nelle affezioni interne (c. 48, VII L 285), Ippocrate dichiara due modi della sua manifestazione:

  In altre parole: la sede del delirio è indifferentemente la regione del cuore o il cervello. In ogni caso, essa è sempre un’affezione che altera le sensazioni e che coinvolge pertanto l’animo. E qui siamo di fronte a una seconda accezione delle phrenes, attestata fin dai tempi di Omero, al plurale come al singolare, e ricordata dal passo ora citato di Celio Aureliano: quella di cuore, animo, mente, intelletto. Rimane pertanto la questione: in quale luogo del corpo insorge la phrenitis? e l’ovvia risposta è: nella sede stessa dell’animo.

  Si rende qui necessaria una breve descrizione dell’anima e delle sue suddivisioni, a partire da Ippocrate. Ci basti qui dire che, dopo che il Corpus ippocratico assegnò al cervello il ruolo egemonico dell’anima, il cuore non fu più ritenuto la sede del pensiero. Platone, in seguito, propose una tripartizione dell’anima, che ebbe un’importanza capitale nel seguito della psicologia classica. Galeno vorrà giustificarla in termini anatomici e Tolemeo la adatterà allo schema diagnostico astrologico.

  Inoltre, è importante notare che la psicologia platonica contiene una concezione che, nei suoi tratti essenziali, può essere definita una iatromatematica primitiva. E per iatromatematica intendiamo qui una visione medica che si modella su una struttura astronomica. Platone, nel Timeo, cerca di trovare l’essenza dell’anima individuale, come dell’anima del mondo, nelle proporzioni armoniche, fondandosi sulle speculazioni dei pitagorici, in particolare di Archita. E fonde insieme tra loro concetti diversi, che potremmo chiamare:

  Ma l’anima del mondo è il principio dei moti ordinati dell’universo, garantisce, possiamo dire, l’ordine dei cieli: passiamo così da un concetto teologico ad uno che è matematico-astronomico. Possiamo dire che viene qui posta una legge di natura. Inoltre, l’anima del mondo è un principio generale, che pervade l’universo e tutto l’abbraccia, è come il periechon, termine con il quale Tolemeo, nel quadripartitum, designa il cielo omniabbracciante, la concava volta celeste dove si esprime una vita senza pause e cesure, che appare imperitura all’occhio dell’uomo mortale e, quindi, forma e perfezione della vita umana e terrena. Un periechon sede della manifestazione luminosa degli astri, percepibile a noi con i sensi e con l’intelletto e in entrambi i modi secondo “modelli” matematici.

  Platone dice che, prima della sua incarnazione, l’anima, che è per essenza immortale e razionale, soggiorna nell’astro al quale si apparenta. In questo suo soggiorno, la vita dell’anima consiste nella contemplazione delle forme intelligibili. A un momento dato, per motivi che Platone non spiega e che sono comunque difficili a definirsi, quest’anima cade in un corpo. Questa caduta comporta importanti modifiche: l’incarnazione richiede infatti una differenziazione dell’anima. Ecco quindi che alla specie immortale, razionale, se ne aggiunge una mortale, che si divide a sua volta in due sottospecie: l’irascibile e l’appetitiva.

  Ora, questo corpo dotato di anima potrà vivere, in quanto la vita è unione di anima e corpo. E però anima e corpo devono avere tra loro un punto di contatto, che Platone trova nel midollo, ma con una distinzione: al midollo cervicale è ancorata la specie immortale, quella mortale al midollo spinale. Pertanto, le sue sottospecie mortali risiedono tra il collo e l’ombelico, spazio che è diviso in due dal diaframma. E così come il collo funge da istmo o limite tra la testa e il petto, il diaframma, dice Platone, svolge la stessa funzione del muro divisorio che separa, in una casa, l’appartamento degli uomini da quello delle donne: l’anima irascibile si situa infatti tra il collo e il diaframma, nella regione del cuore; l’anima appetitiva tra il diaframma e l’ombelico, in quella regione che è come una mangiatoia per il nutrimento del corpo, e in particolare presso il fegato.

  Dice ancora Platone, questa volta nel Fedro (248d-e), che la caduta dell’anima in un corpo non avviene in un modo indifferenziato, al contrario. In virtù della qualità della contemplazione delle forme intelligibili, che è la sua attività propria nel soggiorno celeste, l’anima si insedierà in diversi tipi di semenza umana. In altre parole: se il soggiorno celeste dell’anima comporta un influsso universale del cielo, la diversa qualità contemplativa delle anime nel corso del loro soggiorno sidereo comporta necessariamente un influsso specifico e differenziato dei cieli. Questa seconda parte della premessa ha un contenuto astrologico evidente, i cui antecedenti culturali possono essere ricercati non in terra di Grecia, ma in Babilonia. Basti pensare a quell’astrofisica primitiva che ha informato i cataloghi stellari mesopotamici, fondati sulla gamma cromatica e la tessitura luminosa degli astri.

  Ora, di questi diversi tipi di semenza umana, Platone ci dà una gerarchia che comporta diverse specie strutturate in tre classi principali, analoghe alle tre parti dell’anima. Nella prima classe vediamo tre ordini gerarchicamente disposti: colui che ama il sapere, il filosofo, e colui che ama il bello occupano il primo rango, il secondo spetta al re, al buon legislatore, il terzo al politico, all’amministratore sapiente. Questa è pertanto la classe sociale analoga alla parte razionale dell’anima. Nella seconda classe, analoga alla parte irascibile dell’anima che ha sede nel cuore, Platone pone il solo philoponos. Quest’uomo che ama lo sforzo fisico non si dedica soltanto alle attività della guerra e alla caccia, ma, essendo soprattutto un esperto della ginnastica, egli è il primo guaritore del corpo, se teniamo conto del ruolo preponderante che gli esercizi ginnici hanno, nel pensiero platonico, per il mantenimento del corpo sano e il ristabilimento di quello malato. Nella terza classe, analoga alla parte appetitiva dell’anima, la cui sede è nel fegato, Platone pone, nell’ordine, il divinatore, il poeta, l’artigiano e il contadino. Non v’è dubbio che gli ultimi due sono caratterizzati da un sapere tecnico ed inoltre assicurano i mezzi di sussistenza alla polis. E tuttavia tutti questi sottogruppi non solo hanno un sapere tecnico, ma operano esclusivamente nel campo del sensibile. La divinazione, in particolare, opera sull’osservazione costante dei mutamenti innumerevoli del mondo sensibile. In parte, essa richiede una tecnica adeguata, in parte una possessione divina che si sostituisce al ruolo normale della ragione.

  Occorre allora sapere che cosa è il fegato, in quanto sede più terrestre, più corposa dell’animo, più prossima alla vita terrena e alle sue necessità. Nella letteratura greca, medici e filosofi parlano del fegato come del viscere più di tutti gli altri liscio e simile a specchio. Non solo, in quanto specchio, ha la capacità di riflettere phantasmata ed immagini che turbano o rasserenano; ma, per quanto è della sua composizione, vi è in esso, quasi in uguale proporzione, il dolce e l’amaro. In un passo del Timeo (71b3-d4), Platone descrive il potente influsso che i pensieri che provengono dalla ragione esercitano sul fegato: giacché ora si servono dell’amaro che è in esso e, riempiendolo di acidità, vi fanno apparire colori di bile e lo contraggono e lo fanno apparire ruvido e rugoso; ora, invece, suscitando il dolce che è in esso, lo fanno liscio e sereno. Solo allora, conclude Platone, potrà godere della divinazione, essendo libero dal disturbo della ragione.

  Viene spontaneo, a questo punto, riandare alla divinazione tramite gli exta, all’epatoscopia, di cui, d’altronde, non v’è pratica di gran conto nella Grecia prima di Platone. Ma un testo di Efestione, astrologo nato a Tebe in Egitto nel IV secolo della nostra era, ci offre qualche luce di diversa angolatura su questo passo platonico.

  «Si deve sapere - dice Efestione - che, in generale, dato un principio che abbia efficacia, come è ad esempio dell’esame delle viscere, è possibile conoscere la forma di ogni arte e scienza. La Luna, che è più prossima alla terra di tutti gli altri corpi celesti, altera velocemente le cose di quaggiù quando si trova al suo apparire (epi phaseôs) con Mercurio al momento della dissezione dell’animale. I visceri interni prendono ora una forma, ora un’altra in accordo alla natura degli astri che si commistionano con la Luna e volgono alla sanità e al benessere quando la Luna aumenta il suo moto e la sua illuminazione e si unisce agli astri benefici, alla lividezza e al pallore e all’acquosità e alla non predittibilità quando, di luce calante, si trova con Saturno. Se poi Marte le si unisce quand’essa cresce, riempie ovunque i visceri di segni rossastri dovuti al sangue. Ma quando, crescente, si unisce a Saturno e, calante, a Marte, sopra l’orizzonte, i visceri hanno una buona costituzione, un bell’aspetto, sono chiari e facili a distinguersi e da essi si può trarre una predizione. Il contrario avviene quando <la Luna> è sotto l’orizzonte, soprattutto unitamente alle stelle malefiche».

  E’ questo uno dei numerosi luoghi tecnici dell’arte astrologica che si richiamano ad un rituale ieratico, quali ad esempio la fondazione dei templi o la fusione delle statue in Giuliano di Laodicea, e che testimoniano di una validità teurgica della tecnica astrologica nella tarda antichità. Il livore di Saturno, i segni rossastri di Marte sono altrettanti effetti della bile, la nera e la gialla, che suscitano, per la loro qualità astringente, l’amaro del fegato e impediscono la divinazione. Al contrario, gli astri di Venere e di Giove sono reputati agire nel mondo inferiore e sensibile con proporzione di umido maggiore del secco. A questi due soli astri Platone, nella Repubblica (616E), assegna il colore bianco: Giove il più bianco, leukoteros, Venere bianca e vaporosa, onde in tutti i testi astrologici, e financo nella Metaphysica di san Tommaso (XII, 9), essa ha la tutela della generazione. In molti testi di botanica astrologica, che risalgono alle origini della letteratura ermetica, la sua pianta, il peristereôn, è utile contro le rughe e i giallori del viso delle donne, sì che questo si conserva bianco e liscio, il suo succo, bevuto, rende più efficace e gradito il piacere d’amore. Quest’erba, che è la verbena, è chiamata da Dioscoride erba sacra, perché purifica i luoghi. Infine, nel quadripartitum di Tolemeo, il fegato stesso è sotto la tutela di Venere. Ancora: se, di norma, le malattie del corpo e i malesseri dell’animo provengono dalla disproporzione che è nelle nature di Saturno e di Marte, i quali appunto suscitano i colori della bile, la cura di queste sofferenze non può che risiedere nel temperamento di Giove e di Venere. E però Tolemeo avverte che, nel teatro del mondo, Giove interviene come l’ottimo medico, ma Venere come invocazione agli dei e intervento divino. Scrive Ibn Khaldûn che vi sono nondimeno alcuni uomini dotati dalla natura e che "passano dal mondo della percezione dei sensi al mondo dello spirito. Gli astrologi chiamano questi privilegiati “venusiani” (zuharî), poiché le loro facoltà sono indicate dalla posizione di Venere (az-zuhara) nella loro natività" (al-Muqaddima, ed. V. Monteil, I, pag. 230).

  Infine, nel passo del Timeo platonico ricordato più sopra, dobbiamo concludere che l’amaro e il dolce convivono nel fegato in una proporzione grosso modo uguale. Questo, ci dice Platone, è il temperamento normale dell’organo, le anomalie essendo il prevalere in esso vuoi dell’amaro, vuoi del dolce. Ed è appunto il prevalere del dolce che rende il fegato liscio come specchio. Allora, su questa superficie liscia e brillante potranno apparire immagini, fantasmi, impressioni che provengono dall’influsso dell’anima razionale, quindi, per questo stesso, dalla divinità. In questa rappresentazione sembra esservi, tuttavia, qualche lacuna. Platone ci raffigura un fegato che, per sua natura, non permane nel medesimo stato, ma si muove, come organo che respira, con contrazioni e dilatazioni successive di varia intensità. E’ pur vero che il fegato, fattosi liscio e divenuto come lo specchio degli dei, si trova nella condizione della sua maggior dilatazione e, potremmo dire, riposo. Ma perché appaiano quelle rappresentazioni sensibili che la parte razionale dell’animo invia e che l’uomo coglie se si riflettono nello specchio dilatato del fegato, non è forse necessario che la phronêsis, il buon senso, sia in qualche modo impedito? Questo può avvenire nel sonno, tramite i sogni, o in alcune malattie che comportano delirio, o in stato di trance. E’ questo il caso, dice Platone nel Fedro (244b-c), della profetessa di Delfi, delle sacerdotesse di Dodone e della Sibilla, che furono prese dall’entusiasmo, enthousiasmos, nella sua accezione prima: possessione, partecipazione divina.

  Queste stesse cose possiamo vedere nel loro aspetto iatromatematico o, almeno, possiamo accennare a come esse sono state descritte o riprese sotto questa luce. Nel passo di Efestione che abbiamo citato vi è una frase che costituisce, possiamo dire, l’aforisma introduttivo ai giudizi astrologici riguardo alla divinazione: "Quando la Luna si trova al suo apparire con Mercurio". Qui Efestione nomina, quanto mai al proposito nostro, i due astri che sono, da tutti gli astrologi, reputati i significatori primi dell’animo: la Luna della parte irrazionale o sensibile, Mercurio di quella razionale, vuoi della facoltà immaginativa. E gli astrologi, dalle condizioni proprie, diremmo occasionali o momentanee, di questi astri, erano soliti pronunciare il giudizio sulle qualità dell’animo, contravvenendo in questo modo ai precetti della teologia cristiana.

  Ora, quanto dice Efestione: La Luna al suo apparire, epi phaseôs, significa una posizione prossima al novilunio e al plenilunio. E qui possiamo ricordare un aforisma di Antioco d’Atene, che recita: "La Luna nuova o piena fa gli ispirati dagli dei", o un altro di Retorio, ove è detto che la Luna, cinque gradi prima o cinque gradi dopo il plenilunio, crea gli ispirati da Dio, pieni di divino furore; ma, se l’astro di Marte porta la sua testimonianza, diventano ossessi e furiosi. Abbiamo citato due soli aforismi di due astrologi della tarda antichità, sebbene letteratura sia generosa e abbondi di simili passi. E però non conviene inoltrarsi in un campo ove la tecnicità rallenterebbe di molto questa relazione che vuole essere svelta e il più possibile lieve. Ci basti qui concludere con un passo del quadripartitum tolemaico, ove la citata sentenza di Efestione riappare in un contesto più ampio.

  Alla fine del quarto capitolo dell’ultimo libro del suo trattato astrologico, Tolemeo tratta della divinazione, e ne elenca diverse forme. Dice anzitutto che la facoltà del divinare si dà, secondo quanto ricordato da Efestione, quando "la Luna possiede il luogo deputato all’agire e procede nel suo moto dall’unione al Sole con la stella di Mercurio", in altre parole: quando l’essere umano non solo appare privato di una forma specifica dell’agire, quale è significata da uno dei cinque astri erranti, ma ancora la Luna, in detta configurazione, ne possiede il luogo deputato, ne dà la forma e la volge al divinare. Ma le forme del divinare saranno diverse secondo i diversi segni dello zodiaco che albergano la Luna a quel tempo. Abbiamo infatti gli auguri e gli indovini, e questi ultimi (manteis) sono persone appartenenti al clero, che danno oracoli e predizioni all’interno del tempio. Vi sono poi gli aruspici, sacerdoti addetti al sacrificio, che sezionano la vittima, ne aprono le visceri e divinano dall’osservazione delle interiora. Seguono i lecanomanti, non necessariamente appartenenti al clero, che divinano dalle forme che assumono le gocce d’olio versate in un bacino d’acqua. Vi sono poi i maghi, ovvero quei sacerdoti cui viene riconosciuta una capacità guaritrice, e coloro che rivelano ciò che è nascosto. Costoro erano, di norma, malati che avevano preso dimora all’interno del recinto del tempio. Qui infatti solevano dimorare sia i profughi, sia quei malati che non riuscivano a trovare sollievo alla loro malattia, sia, infine, chiunque avesse, in un certo senso, lese sia la parte fisica sia la parte spirituale, e quindi erano anche temporaneamente considerati come invasati che davano od offrivano responsi. Possiamo quindi dire che sono entusiasti particolari, diventati tali per destino o per vicissitudine della vita e che rivelano inconsapevolmente cose future. Cadono in trance, hanno delirii sacri, e sono soggetti all’epilessia e alla demenza. Anche loro, quindi, sono assimilabili alla figura del “medium”.Seguono poi i necromanti, i medium che suscitano gli spiriti dei trapassati, e infine coloro che sono ispirati da una divinità, gli interpreti dei sogni e gli esorcisti.

  Quello che interessa qui notare è che Tolemeo non elenca tutti i segni dello zodiaco, ma solo quelli che son detti avere un qualche rapporto o familiarità con i luminari, il Sole, la Luna, e gli astri di Venere e di Giove. Osservava Ibn Ridwân, medico egiziano fatimida che commentò il quadripartitum tolemaico, che il divinare non può darsi senza la familiarità di questi astri. Ma noi possiamo ancora dire che sono assenti gli astri di Saturno e di Marte, quelli che muovono la bile, ora più calda, ora più secca e che accrescono l’amaro del fegato, ne corrugano la liscia superficie e ne conturbano le immagini. Sono gli astri della malinconia, della depressione e della fobia.


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