Joe Fallisi

La dea bendata.

«Che è la vita degli uomini? un’immagine della divinità.»
(F. Hölderlin)

  Nella conclusione di un mio articolo pubblicato qualche anno fa su “Linguaggio astrale”, si poteva leggere: «Che alcuni classici non si riferiscano esplicitamente all'impiego delle coordinate equatoriali per stabilire la Parte di Fortuna (o la Parte di Genio - e tutte le altre, perché nel calcolo sempre intervengono una o più cuspidi), quasi sempre deriva dal fatto che, trattandosi di un ‘oroscopo’, essi ne davano per scontato il procedimento tecnico, analogo a quello in uso per ottenere l'Ascendente» (1). Ora non potrei più scrivere così. Innanzi tutto mi sono reso conto che in effetti non si tratta di “alcuni classici”, ma della maggioranza degli autori. Lo stesso Giuseppe Bezza, unico, fra i moderni, ad aver ripreso il calcolo “mondano” spiegato da Placido (2), come suoi predecessori fa i nomi solo di Albumasar e al-Nayrizi (3), citando anche “alcuni manoscritti medievali”, nei quali ultimi, peraltro, il metodo si ritrova “accennato” (cfr. Paolo d'Alessandria, Introduzione all'astrologia. Lineamenti introduttivi alla previsione astronomica, Mimesis, Milano 2000, p. 96, nota n. 1). Di sicuro, i due manuali classici tradotti e curati sempre da Bezza, quello di Paolo e L’arte dell'astrologia di al-Bîrûnî, (Mimesis, Milano 1997), non illustrano la tecnica basata sul moto diurno, bensì quella usuale, che consiste in addizioni e sottrazioni direttamente sull'eclittica (cfr. P. d'Alessandria, op. cit., p. 88; al-Bîrûnî, op. cit., p. 93) - come, del resto, il trattato medioevale di Guido Bonatti, anch’esso disponibile in italiano (cfr. R. Zoller, Le chiavi perdute della predizione. Le parti arabe in astrologia, Meb, 1990, pp. 125-215). Affermare il contrario, cioè che in realtà, pur parlando di gradi dei segni, essi intendano gradi equatoriali, quasi si trattasse di un sottinteso, di una convenzione, cioè, comunemente nota e impiegata, non mi sembra in questo caso verosimile (4). Ed entrambi i testi sono tipici (e insigni) esempi di una vastissima letteratura che li ha preceduti e seguiti. L'idea che mi sono fatto, non solo riguardo alle sorti, ma anche alle direzioni, alle profezioni, alla rettifica dell’ora di nascita e ad altre tecniche essenziali (compresa la stessa domificazione), è che durante l’intero arco della storia dell'astrologia siano coesistiti metodi semplificati e approssimativi con altri più complessi e corretti, e molto più rari. E che in definitiva, sebbene patrimonio comune e certissimo di ogni buon artista fosse la conoscenza teorica e l’osservazione dei moti celesti - innanzi tutto di quello diurno -, la realtà luminosa del cielo, le fasi degli astri, la teoria degli elementi, umori, temperamenti, la filosofia della natura..., sia sempre stata una minoranza di sapienti quella capace di trarre dai principi tutte le necessarie conseguenze operative. Il vero paradosso è che proprio oggi l’astrologia, ormai degradata a “superstizione di secondo grado” (Adorno), a chiacchiera vana e ignorante, potrebbe al contrario, in virtù delle attuali conquiste filologiche e scientifiche, conoscere un impiego superiore rispetto a qualunque epoca del passato e rivelare tutte le sue potenzialità.

  L’“indifferentismo”, a proposito del calcolo delle sorti, non è certo la soluzione più brillante. I due diversi metodi possono condurre a una differenza di molti gradi eclittici: o si sceglie l’uno, o si sceglie l’altro. E il criterio, naturalmente, non può essere la “popolarità” dell'uno o dell'altro, né la sua difficoltà. La Tetrabiblos è un eccezionale compendio - ineguagliato - della teoria astrologica classica, di cui fornisce il più puro ed efficace metodo d’applicazione. Ma il pensiero dell'autore, che si esprime, in forma estremamente concisa, non su tutto il corpus della dottrina, ma su ciò ch’egli considera certo ed fondamentale (5), può essere stabilito e compreso nella sua verità solo attraverso la conoscenza del linguaggio specifico e della terminologia, e un'opera, insieme filologica ed esegetica, di commento critico del testo. Scrive Tolemeo:

  «La sorte di fortuna sempre, e nel giorno e nella notte, deve essere computata in base alla quantità del numero che intercorre dal Sole alla Luna, riportando la distanza equivalente a partire dall’oroscopo secondo la sequenza dei segni, in modo tale che quel rapporto e configurazione propria del Sole rispetto all’oroscopo, sia anche della Luna rispetto alla sorte di fortuna, ond’essa quasi appare oroscopo lunare.» (Tetrabiblos, III, 11)

  Dove, se non in mundo, si attuano propriamente i rapporti e le configurazioni del Sole con l’oroscopo? E se la Parte di Fortuna deve considerarsi (quasi) come oroscopo lunare, in che altro modo Tolemeo può intendere il suo calcolo all’infuori di quanto avviene per l’Ascendente? Certo, l’astrologo odierno, assuefatto a trarre il grado zodiacale che sorge consultando in maniera automatica le Tavole delle Case (o affidandosi, in modo ancora più inconsapevole, a qualche software), ha persino più difficoltà che in passato nel comprendere la ragione stessa di questo procedimento. Uno dei pregi de I moti del cielo di Marco Fumagalli (6) è proprio di consentire il calcolo “all’antica” dell’Ascendente, senza far più ricorso alle Tavole delle Case, sia per l’emisfero Nord (7) sia per l’emisfero Sud (8). E’ il metodo classico. Moltiplicando per 15 il tempo siderale locale (cui si devono aggiungere 12 ore nelle nascite che avvengono al di sotto del circolo massimo), si trova l’Ascensione Retta del Medio Cielo, cioè l’arco di Equatore celeste compreso tra il punto gamma e il piede del punto dell’eclittica che sta transitando sul meridiano superiore; aggiungendo 90° (ovvero 6 ore) all’Ascensione Retta del Medio Cielo, si ottiene l’Ascensione Obliqua dell’oroscopo, vale a dire l’arco di Equatore compreso tra il punto gamma e il punto Est nell’istante in cui sta sorgendo all’orizzonte orientale un determinato punto dell’eclittica, ovvero il grado di Equatore celeste che sorge insieme con questo stesso punto. Ai gradi di Equatore, tanto del Medio Cielo, quanto dell’oroscopo, corrisponderanno determinati gradi eclittici (9), che nel libro di Fumagalli si possono trovare nelle rispettive Tavole di Ascensione Retta (10) e di Ascensione Obliqua (11), tenendo conto che il polo del Medio Cielo - cioè l’elevazione del polo celeste sul suo circolo orario - è pari a una latitudine terrestre di 0°, quello dell’oroscopo alla latitudine stessa del luogo considerato (12). Similmente, per giungere al grado di passaggio delle sorti (quel grado dell’eclittica che si trova alla medesima distanza oraria dal meridiano più vicino (13) ), si dovrà prima stabilire l’Ascensione o la Discensione Obliqua delle sorti al relativo polo di ognuna, e quindi il loro stesso polo. Il computo “orario” della Parte di Fortuna/Parte di Genio ha in realtà la stessa formula che la tradizione ci ha lasciato:

Sorte di giorno di notte  
Tychê  la distanza ...    la distanza ...   ...si aggiunge all'oroscopo
Daimôn  la distanza ...    la distanza ...  

con la sola, basilare, avvertenza che le distanze devono essere calcolate non con i gradi eclittici, ma con i gradi equatoriali (14).

  Sorte della Luna e Sorte del Sole, come l’oroscopo, sono circoli immateriali e virtuali della sfera, che esistono solo in conseguenza del moto orario diurno (15) e che esprimono il rapporto luminoso tra Sole e Luna all’interno di ogni singola genitura, rispetto, cioè, a un tempo determinato e a un orizzonte specifico (16). In quanto “oroscopo lunare”, la Parte di Fortuna si può vedere in effetti a sua volta come un orizzonte, una meta (17) a cui il luminare notturno deve ascendere e una volta superata la quale per così dire “viene alla luce”, s’“invera”. E allo stesso modo, analogamente, la Parte di Genio e le altre cinque sorti ermetiche, donde l’importanza fondamentale della congiunzione dei luminari e dei pianeti con le relative sorti. Queste le formule delle sorti planetarie secondo l’ordinamento classico del Panaretos (18):

Sorte di giorno di notte  
 Erôs la distanza ... la distanza ...   ...si aggiunge all'oroscopo
 Anankê la distanza ... la distanza ...    
 Tolma la distanza ... la distanza ...
 Nikê la distanza ... la distanza ...
 Nemesis la distanza ...   la distanza ...  

  Alcune osservazioni s’impongono. Tolemeo, a differenza degli altri autori classici, di una sola Tychê parla, senza distinzione di calcolo tra il giorno e la notte, e non menziona alcun'altra sorte. Credo che ciò si spieghi soltanto con la radicale essenzialità del Quadripartito. Scrivevo a questo proposito nel 1996: «Per quel che concerne (…) la distinzione fra nascite diurne e notturne, (…) in un'astrologia che si fondava direttamente sull'osservazione della volta celeste e dei suoi fenomeni luminosi, e sulla dialettica luce-ombra, era ovvio che se ne dovesse tener conto» (19). D'altronde, Parte di Fortuna e Parte di Genio sono effettivamente l'una l'immagine capovolta dell'altra e, come per un principio superiore di compensazione ed equilibrio, se nel giorno prevale la sorte della Luna, nella notte signoreggia quella del Sole (20). Ma è sui nomi e sul significato di due sorti in particolare che credo valga la pena soffermarsi, quella del Sole e, ancor più, quella di Mercurio, se è vero che le sorti rivelano l'intima essenza e il “cuore” segreto degli astri (21). «La sorte del Sole significa la threskeia, la pietas, ciò che Ibn Ezra traduce dei obsequium. Essa è comunemente chiamata dagli astrologi del Medioevo pars futurorum o pars legis. Essa è chiamata altresì pars absentiae o pars celati, in quanto significa ciò che è occulto e nascosto alla vista. Nella versione latina di Ermanno di Carinzia dell’Introduzione all'astrologia di Abû Ma‘shar troviamo la definizione: “Chiamano la pars celati amalgrab, che è la virtù interiore”. Amalgrab potrebbe richiamare al-maghrib, il tempo o luogo del tramonto del Sole, il tramontare e quindi l’assenza, il nascondersi. Ma il nome arabo della sorte del Sole, al-ghayb, significa in generale ciò che è segreto e nascosto.» (22) A Daimôn (e al luminare diurno di cui esso esprime la natura più riposta) compete dunque, paradossalmente, non la luce piena del giorno e quel che è manifesto e vicino, bensì l'ombra, l'assenza, il segreto. O, per meglio dire, il suo compito è di illuminare e investigare le tenebre, rendere chiaro e presente allo spirito ciò che è oscuro e lontano, farlo risplendere nel buio.

  Anankê, venerata come divinità dagli antichi greci con un santuario a Corinto, è il fato ineludibile, e come tale il suo nome, corrispondente al latino necessitas, è anche sinonimo di Mòira, della stessa Tychê. Essa “produce”, secondo Paolo, «i legami, la subordinazione, le lotte e i combattimenti, le inimicizie e l'odio e le accuse e ogni altro violento accidente che può sopraggiungere agli uomini nel corso della vita» (23). Contrariamente a quanto ci si potrebbe attendere, la sorte di Mercurio è posta in relazione non con il piacere e il gioco dell'intelletto e delle facoltà di connessione e scambio inerenti al mobile, curioso, veloce e plastico Hermes, divino adolescente; ma piuttosto con l'attività specifica, il “lavoro” originario incessante della mente umana, alla base della “coscienza” insieme di se stessi e del mondo, che si accompagna alla perdita dell'ambito naturale, della spontaneità, degli istinti regolatori e alle catene inflessibili dei rapporti sociali che il mondo reggono. In un suo brano grandioso e tragico Nietzche descrive questo processo dialettico fatale nel modo più efficace:

«A questo punto non posso più esimermi dal fornire alla mia particolare ipotesi sull’origine della ‘cattiva coscienza’ una prima provvisoria formulazione: tale ipotesi non si lascia facilmente ascoltare e vuole essere lungamente meditata, vigilata e ponderata. Considero la cattiva coscienza come quella grave malattia in balia della quale doveva cadere l’uomo sotto la pressione della più radicale tra tutte le metamorfosi che egli abbia mai vissuto - quella metamofosi in cui si venne a trovare definitivamente incapsulato nell’incantesimo della società e della pace. Non diversamente da quel che deve essere accaduto agli animali acquatici, allorché furono costretti a divenire animali terrestri oppure a perire, si compì la sorte di questi semianimali felicemente adattati allo stato selvaggio, alla guerra, al vagabondaggio, all’avventura - a un tratto tutti i loro istinti furono svalutati e ‘divelti’. Dovettero ormai camminare sulle gambe e ‘portare se stessi’, laddove fino a quel momento venivano portati dall’acqua: una spaventosa pesantezza gravava su di loro. Si sentivano inabili alle funzioni più semplici, per questo nuovo mondo sconosciuto non avevano più le loro antiche guide, gli istinti regolativi, inconsciamente infallibili - erano ridotti, questi infelici, a pensare, dedurre, calcolare, combinare cause ed effetti, alla loro ‘coscienza’, al loro più miserevole organo, il più esposto a ogni errore! Credo che non ci sia mai stato sulla terra un tale senso di miseria, un tale plumbeo disagio - e intanto quegli antichi istinti non avevano cessato tutt’a un tratto di porre le loro esigenze! Solo che difficilmente e di rado era possibile dar loro soddisfacimento: in sostanza essi dovettero cercarsi nuovi e per così dire sotterranei appagamenti. Tutti gli istinti che non si scaricano all’esterno si rivolgono all’interno - questo è quella che io chiamo interiorizzazione dell’uomo: in tal modo soltanto si sviluppa nell’uomo quella che più tardi verrà chiamata la sua ‘anima’. L’intero mondo interiore, originariamente sottile come se fosse teso tra due epidermidi, si è stemperato e dischiuso; ha acquistato profondità, latitudine, altezza a misura che è stato impedito lo sfogo dell’uomo all’esterno. Quei terribili bastioni con cui l’organizzazione statale si proteggeva contro gli antichi istinti della libertà - le pene appartengono soprattutto a questi bastioni - fecero sì che tutti codesti istinti dell’uomo selvaggio, libero, divagante si volgessero a ritroso, si rivolgessero contro l’uomo stesso. L’inimicizia, la crudeltà, il piacere della persecuzione, dell’aggressione, del mutamento, della distruzione - tutto quanto si volge contro i possessori di tali istinti: ecco l’origine della ‘cattiva coscienza’. L’uomo che in mancanza di nemici esterni e di resistenze, rinserrato in una opprimente angustia e normalità di costumi, faceva impazientemente a brani se stesso, si perseguitava, si rodeva, si aizzava, si svillaneggiava, quest’animale che si vuole ‘ammansire’ e dà di cozzo alle sbarre della sua cella fino a coprirsi di piaghe, questo essere che manca di qualcosa, che si strugge nella nostalgia del deserto e che deve far di se stesso un’avventura, una camera di supplizi, una selva insicura e perigliosa - questo giullare, questo desioso e disperato prigioniero divenne l’inventore della ‘cattiva coscienza’. Con essa fu però introdotta la più grande e la più sinistra delle malattie, di cui fino a oggi l’umanità non è guarita, la sofferenza che l’uomo ha dell’uomo, di sé: conseguenza di una violenta separazione dal suo passato d’animale, di un salto e di una caduta, per così dire, in nuove situazioni e condizioni esistenziali, di una dichiarazione di guerra contro gli antichi istinti, sui quali fino allora riposava la sua forza, il suo piacere e la sua terribilità. Aggiungiamo subito che, d’altro canto, col fatto di un’anima animale rivolta contro se stessa, intenta a prendere partito contro se stessa, si era presentato sulla terra qualcosa di nuovo, profondo, inaudito, enigmatico, colmo di contraddizioni e colmo di avvenire, che l’aspetto della terra ne fu sostanzialmente trasformato. In realtà ci sarebbero voluti spettatori divini per apprezzare lo spettacolo che in tal modo aveva avuto inizio e di cui non è ancora assolutamente prevedibile la fine - uno spettacolo troppo squisito, troppo meraviglioso, troppo paradossale perché potesse svolgersi assurdamente inosservato su un qualche ridicolo astro! Da allora l’uomo è annoverato tra le più inaspettate e stimolanti mosse azzeccate che gioca il ‘grande fanciullo’ eracliteo, si chiami Zeus o caso - desta per sé un interesse, una tensione, una speranza, quasi una certezza, come se con lui qualcosa si annunziasse, qualcosa si preparasse, come se l’uomo non fosse una meta, ma soltanto una via, un episodio, un ponte, una grande promessa…» (24)

  La natura perigliosa di Anankê, piuttosto assimilabile a quella delle sorti di Marte e di Saturno (25), è confermata del resto dalla disposizione dei fattori che intervengono a formare le parti dei cinque pianeti, nella quale, evidentemente, non è il principio dell’hairesis a valere, bensì quello della differenza tra astri benefici e malefici. Fermo restando il grado levante come «III luogo» (al-Bîrûnî), «luogo del lancio» (Bonatti), il «II luogo», o «fine» è infatti rappresentato dal pianeta stesso nel caso delle sorti dei benefici, dalla Parte di Fortuna quando invece si tratta delle sorti dei malefici e di quella di Mercurio; così come «I luogo» o «inizio» è la Parte di Genio per Erôs e Nikê, l'astro medesimo, viceversa, per Tolma, Nemesis e Anankê. Si noti che il Sole e i pianeti della fazione diurna sono tutti in gioia al di sopra dell'orizzonte, mentre la Luna e i pianeti della fazione notturna al di sotto, luminare contrapposto a luminare, grande benefico a piccolo benefico, grande malefico a piccolo malefico (Sole in 9° Casa/Luna in 3°, Giove in 11°/Venere in 5°, Saturno in 12°/Marte in 6°). Mercurio, che appartiene al giorno se orientale al Sole, alla notte se occidentale, ha la sua gioia in I Casa, che è sotto l'orizzonte, ma in sé racchiude il grado che si leva a oriente, dall'oscurità al chiarore. Ed è questo il significato intimo, la funzione specifica di Mercurio, che la sua sorte rivela e fa giungere a compimento: il venire alla luce, nel travaglio, della conoscenza e della coscienza.

  Tanto deve distare la Luna (il Sole) dalla sua sorte, quanto il Sole (la Luna) dall’Ascendente. Così, se in un tema (di Primo Quarto) il Sole è sulla cuspide dell’11° Casa e la Luna su quella della 2°, 10 Case (20 ore temporali, 300° equatoriali) separano, nel senso orario, il luminare diurno dall’oroscopo e 10 Case dovranno intercorrere tra il luminare notturno e la sorte lunare; a sua volta, se la Luna dista 1 Casa (2 ore temporali, 30° equatoriali) dall’Ascendente, 1 Casa dovrà percorrere il Sole per giungere alla sorte solare. Inoltre, lo stesso rapporto che esiste tra Luna e Sole e tra Sole e Luna (che in questo caso è, ripettivamente, di 6 e di 18 ore temporali) dovrà verificarsi tra Parte di Fortuna/Parte di Genio e oroscopo. E la sorte della Luna risulterà esattamente in controparallelo nel mondo rispetto alla sorte del Sole (regola che presenta un’unica eccezione, la sizigia: nel novilunio le due sorti si trovano entrambe congiunte con l’Ascendente, nel plenilunio col Discendente). Nell’esempio proposto, la Parte di Fortuna sarà all’Imo Cielo, quella di Genio al Medio Cielo.

  La misurazione in gradi equatoriali (da 0° a 360°), equivalenti alle ore (da 0 a 24, 360° : 24 = 15°, 15° = 1h, l’ora equinoziale (26) ), è l’unica propria di tutti i fenomeni della sfera locale, quelli che l’astrologo moderno, con le sue effemeridi ultra-precise e le sue calcolatrici infallibili e super-veloci, trascura, non studia e, in genere, neppure conosce. L’estrema decadenza dell’astrologia ha la sua radice teorica anche e soprattutto in tale situazione. E’ come se dei tre periodi naturali del tempo, l’anno, il mese e il giorno, si tenesse conto solo dei primi due, ignorando l’ultimo, che li forma entrambi. In realtà la “via regia del Sole” non è una, ma duplice. La Terra compie la sua danza lenta attorno al luminare diurno ruotando insieme, velocissima, su se stessa. I due moti sono concatenati e imprescindibili l’uno dall’altro, non esiste l’uno senza l’altro. Ed è così per la “Lyla” di tutti i corpi del sistema solare. Espressa in tempo terrestre la rivoluzione di Plutone avviene in 247,685 anni, la sua rotazione in 6 giorni 9h 17m; per Nettuno i valori sono, rispettivamente, 164,8 anni e 16h 6m; per Urano 84 anni e 17h 14m; per Saturno 29,46 anni e 10h 39m 22s; per Giove 11,86 anni e 9h 55m 3s; per Marte 1,881 anni e 24h 37m 22s; per Venere 224,7 e 243 giorni (la rotazione di Venere ha moto retrogrado); per Mercurio 88 e 58,64 giorni - quanto alla Luna, la sua rivoluzione siderale ha la stessa durata della sua rotazione: 27 giorni 7h 43m… Anche un astrologo marziano serio dovrebbe considerare entrambi i movimenti del suo pianeta con la stessa attenzione!…

  Secondo Aristotele la sostanza degli esseri è originata da quattro cause: una causa materiale (la materia di cui le cose sono composte), una causa efficiente (il processo attraverso il quale si manifestano), una causa formale (la loro struttura e organizzazione interna) e una causa finale (lo scopo per cui esistono). Impiegando queste categorie filosofiche, si potrebbe dire che le ultime due cause, quelle fondamentali, appartengono al cielo, al moto apparente del Sole da ovest verso est; le prime, accessorie, alla terra, al moto apparente del Sole da est verso ovest. Ogni nascita rinnova questo miracolo: le forme celesti si “incarnano” nella materia terrena che è loro propria, attualizzandone la potenza.

  Si legge nel Vocabolario della lingua italiana della Treccani:

  «fato (...) [dal lat. fatum, der. di fari ‘dire, parlare’] (pl. –i, ant. le fata). – Originariamente, presso i Latini, la parola della divinità, e quindi il destino irrevocabile (che comprende anche la morte) fissato fin dal principio e a cui nessuno si può sottrarre; al plur., oltre a indicare i detti del veggente che profetava il futuro, fu nome collettivo delle personificazioni del destino. Nel mondo moderno, quando non è usato con riferimento alla concezione antica, significa più genericamente, al sing. o al plur., il destino: Che giova ne le fata dar di cozzo? (Dante); i Fati Non lasciano ad Atene altro che il nome (Foscolo) (...)» (Vol. II, p. 396)

  «fortuna (...) [lat. fortuna, der. di fors fortis, “caso, sorte”]. – 1. Propriam., nome di un’antica divinità romana, personificazione della forza che guida e avvicenda i destini degli uomini, ai quali distribuisce ciecamente felicità, benessere, ricchezza, oppure infelicità e sventura: la dea Fortuna; il tempio della Fortuna. Concepita e rappresentata variamente nella letteratura e nell’arte (Dante, per es., nel c. VII dell’Inf., l’immaginò come un’intellegenza celeste ordinata da Dio quale ‘general ministra e duce’ dei beni mondani, beata nel cielo dove ‘con l’altre prime creature lieta Volpe sua spera’; il Machiavelli invece la riportò sulla terra, sottomettendola, ma come potenza astratta, alla volontà dell’uomo: ‘la fortuna è donna: ed è necessario, volendola tenere sotto, batterla e urtarla’, cap. XXV del Principe), è rimasta anche nella fantasia popolare come un essere soprannaturale a cui si attribuisce il merito o la colpa di avvenimenti inaspettati e di improvvisi mutamenti di stato, raffigurata come una giovane donna bendata, con un piede su una ruota, simbolo della sua instabilità (...) 5. ant. Sorte cattiva, codizione disgraziata, disavventura: erano in f. e in gran bisogno (M. Villani); De le f. mie tante, e sì gravi (Petrarca). 6. Letter. Fortunale, burrasca, tempesta sul mare: ond’el piegò come nave in f. (Dante); Quando ingrossa ruggendo la f. (Manzoni) (...) 7. ant. Nei secoli 17° e 18°, si diceva soldato di fortuna (calco del franc. soldat de fortune) per indicare un uomo d’arme che dai gradi inferiori della milizia fosse salito, per proprî meriti, ai gradi più alti (con sign. affine alla frase odierna venuto dalla gavetta); più raram., uomo di f., uomo che si è fatto una posizione con le proprie capacità (anche questo per calco del fr. homme de fortune). (...)» (Ibid., pp. 501-502)

  «gènio (…) [dal lat. Genius, nome proprio della divinità tutelare, e fig. (come nome comune, genius) “inclinazione, disposizione”]. – 1. a. Nella mitologia pagana, lo spirito, buono o cattivo, che presiedeva al destino degli uomini dalla nascita alla morte, e anche lo spirito che aveva sotto la sua protezione una città, un popolo, una nazione: g. benefico; il g. di un luogo, il g. di Roma; il genio familiare di Socrate (analogam. il genio familiare del Tasso, spirito buono che nell'infermità della sua mente il poeta credeva gli apparisse di tanto in tanto per conversare con lui su problemi dottrinali). Con questo sign. originario (in cui genio si alterna spesso con l'espressione nume tutelare), è frequente l'uso delle forme latine genius loci, genius familiaris. b. fig. Essere immaginario o forza astratta a cui si attribuiscono certi eventi della nostra vita o l'ispirazione di risoluzioni prese (…)» (Ibid., p. 594)

  «parte (...) [lat. pars partis]. – (...) 2. a. (...) fare le p., dividere in parti e distribuire a ciascuno la sua (...) la p. mia, tua, sua, ciò che, in una divisione, spetta a me, a te, a lui (...) per estens. , letter., proprietà: il Bisogno sospinse A por le rapitrici Mani nell’altrui p. (Parini) (...) 3. b. Lato, banda (...) mettersi da una p., in un canto, in un angolo (...) Dal sign. di lato si svolse anticamente anche il senso fig. di qualità d’una persona (...) c. (...) Con altro traslato la locuz. da p. mia (o sua, nostra, ecc.), a mio nome, per conto mio (o suo, nostro, ecc.) (...) anche, da p. mia, sua, ecc., per ciò che dipende da me, da lui, ecc. (...) 4. a. (...) A Venezia, parte fu anticam. sinon. di partito nel sign. di votazione, scrutinio, deliberazione di un’assemblea votante (...) nel gioco del golf, ciascun giocatore o anche due giocatori che siano compagni di gioco (...) 5. a. Dall’uso della parola con valore distributivo (‘ciò che spetta o tocca a ciascuno’), nelle rappresentazioni teatrali, (e, per analogia, anche in quelle cinematografiche), l’azione che svolge e l’insieme delle battute che dice ogni personaggio, e, per estens., il personaggio stesso che un attore interpreta (...) b. In senso fig., compito, ufficio assegnato a una persona, o anche la funzione che essa compie in un determinato momento (...) 6. Con usi analoghi in musica: a. Ruolo destinato a una voce o a uno strumento in una esecuzione di insieme (opera, concerto, ecc.) (...) b. Singola linea melodica in un brano a più voci scritto per vari esecutori o per un solo strumento (...) c. estens. Foglio o fascicolo su cui un singolo cantante o strumentista legge la musica che egli esegue in una composizione per più esecutori (...)» (Vol. III*, pp. 707-708)

  «sòrte (...) [lat. sors sortis]. – 1. Forza che regola o s’immagina regolare in modo imprevedibile le vicende umane, senza che la volontà degli uomini possa nulla contro di essa (...) 2. estens. Ciò che la sorte destina agli uomini; il complesso delle vicende, spec. personali, e delle condizioni materiali e morali riserbate a ciascuno dalla sorte, indipendentemente dalla sua volontà, dalle sue aspirazioni o decisioni (...) 3. a. Con sign. più generico, vicenda imprevista e casuale, occasione (...) talora, occasione fortunata (...) b. Evento fortuito, caso, nella locuz. per sorte, per caso: i portantini, vedendo la mala parata, ricoverarono il padrone in una casa d’amici, che per s. era vicina (Manzoni); ant. o region. a sorte, con lo stesso sign.: andandogli in quelli tumulti il popolo armato a casa per saccheggiarla, messere Francesco ... si trovava a sorte in casa (Machiavelli). Quest’ultima locuz. è peraltro com. nelle espressioni estrarre, tirare a s., sorteggiare, scegliere mediante sorteggio (...) 4. ant. a. Ciascuno degli oggetti di varia natura (pietre, astragali, dadi, tavolette scritte, ecc.) che, gettati o mescolati a caso oppure scelti a caso tra gli altri simili, erano usati in molte civiltà e religioni antiche per fini divinatorî, traendosi auspici dalla loro disposizione o dalla loro forma o dai segni che portavano (pratica detta cleromanzia): gettare le s.; profetare per sorti; divinazione per sorti; Fer la città sovra quell’ossa morte; E per colei che ’l loco prima elesse Mantüa l’appellar sanz’altra sorte (Dante, alludendo all’uso antico di scegliere il nome di una città gettando le sorti). b. Foglietto scritto che serviva per un sorteggio: gioco delle s., gioco di società, diffuso nel periodo rinascimentale, che consisteva nell’estrarre bigliettini nei quali figuravano motti e allusioni argute ricavate non di rado dalle poesie del Petrarca. c. Cosa che tocca in sorte; in partic., la parte che spetta di un’eredità, di un guadagno, e sim.: De’ quali [nostri beni] a Palemon tutta mia sorte Ti priego doni appresso alla mia morte (Boccaccio). Anche, il capitale che si dà o si riceve a frutto. d. Nel diritto romano di tarda età imperiale, era detto sorte (lat. sors) il terreno assegnato a un barbaro in seguito alla distribuzione di fondi per sorteggio.» (Vol. IV, pp. 435-436)

  «sorteggiare (...). – 1. Estrarre a sorte, assegnare tirando a sorte; scegliere mediante un metodo fondato sulla sorte: s. i premî; s. i giurati; s. l’ordine di precedenza. 2. Assol., raro e ant., assegnare, distribuire le sorti: Ma l’alta carità, che ci fa serve pronte al consiglio che ‘l mondo governa, Sorteggia qui sì come tu osserve (Dante). (...)» (Ibid., p. 436)

  La divinità tremenda del destino fu chiamata dai greci Mòira, Tychê, Anankê, “necessità”. E, al di là dell’arbitrio insondabile, essa era percepita come causa necessaria di tutti gli eventi, ragione che governa il mondo. Il suo dettame, all’apparenza cieco, rappresentava una giustizia superiore, libera da ogni passione: a ogni essere la sua sorte. Ora, che cosa, se non l’oroscopo, rappresenta nel tema di nascita il sigillo individuale, la quintessenza della sorte? Quel grado che sorge a oriente e che si fissa immobile come il timone, il fondamento della genitura, è anche la “base di partenza”(27) (diretta o indiretta) di ogni Parte.


NOTE

1. J. Fallisi, Noterella sulle parti, “Linguaggio astrale” n. 103, 1996, p. 71.

2. Le parole di Placido, quando espone la teoria del suo amico Negusanzio (v. AA.VV., Della sorte della Luna e delle altre sorti. 2. Il loro computo, “Schema” n. 9, 1988, pp. 490-496, oppure G. Bezza, Commento al primo libro della Tetrabiblos di Claudio Tolemeo, Nuovi Orizzonti, Milano 1992, pp. 412-416), sono un esempio bellissimo di onestà intellettuale, di ingegno e di purezza d’animo. A comprendere la giusta modalità del calcolo furono tuttavia due allievi del monaco olivetano, Francesco Brunacci e Francesco Maria Onorati. Accortisi che anche il metodo di Placido era inadeguato, poiché risultava conforme al principio tolemaico solo al sorgere del Sole, essi ne proposero una versione “oraria”, finalmente perfetta, nella ristampa della Coelestis Philosophia del 1675 (cfr. M. Fumagalli, La sorte oraria: il vero oroscopo lunare, “Phôs” n. 2, 2001, pp. 10-12 e il testo originale di F. Brunacci e F. M. Onorati, ibid., pp. 13-15).

3. Cfr. F. I. Haddad, D. Pingree, E. S. Kennedy, al-Bîrûnî’s Treatise on Astrological Lots, “Zeitschrift für Geschichte der arabish-islamischen Wissenshaften”, n. 1, 1990, pp. 9-54. A questi nomi si possono aggiungere quelli di Ibn al-Dâya e al-Battânî (cfr. M. Costantino, R. Riccio, G. Ufficiale, Delle sorti della ricchezza ovvero della ricchezza delle sorti, “Linguaggio astrale” n. 102, 1996, pp. 87-88).

4. Quella dei segni - e gradi - “uguali”, è una questione teorica di estremo interesse e importanza (cfr. A. Szabó, E. Maula, Les débuts de l’astronomie, de la géographie et de la trigonométrie chez les Grecs, Vrin, Paris 1986, pp. 144, 179-181; G. Bezza, Una interpretazione della teoria degli aspetti II: genere e qualità dei raggi (parte seconda), “Schema” n. 4, 1987, pp. 195-196; G. Bezza, Commento al primo libro della Tetrabiblos di Claudio Tolemeo, op. cit., pp. 356, 424, 428). L’ambiguità dell’espressione ha la sua base nella differenza-analogia tra i due moti, da oriente a occidente e da occidente a oriente, della sfera celeste (l’equatore sta al giorno come l’eclittica all’anno). Due sono le possibilità. O si tratta di formule didattico-iterative che indicano i segni tropici, così distinti, espressamente, da quelli stellati; oppure ci si riferisce al circolo delle ore e alle sue partizioni (per quel che concerne Bonatti quest’ultima ipotesi è tuttavia insostenibile, se egli scrive: «con le parti vengono usati i gradi uguali (…), dato che le parti si muovono secondo l’asse dell’eclittica, (…) e i gradi dell’eclittica [corsivo mio] sono uguali.» - cfr. R. Zoller, op. cit., pp. 128-129). Il calcolo “dotto”, peraltro, può venir eseguito in modo abbastanza veloce con l’ausilio di un astrolabio o di una sfera solida e nulla vieta di pensare che proprio questo fosse uno dei sistemi adottati nell’età classica. È quanto immagina lo studioso di astronomia antica Salvo De Meis relativamente al computo dello stesso oroscopo e del Medio Cielo (cfr. Paolo d’Alessandria, op. cit., p. 127).

5. È in base a tale criterio selettivo che Tolemeo non si occupa, per esempio, né delle interrogazioni, né delle elezioni e delle stesse sorti considera solo quella lunare.

6. M. Fumagalli, I moti del cielo. Tavole di ascensione retta, declinazione, semiarchi, ore temporali, differenza ascensionale, ascensione e discensione obliqua, poli delle case, archi crepuscolari, fasi e calendario delle stelle, a tutte le latitudini terrestri, Cielo e Terra, Milano 2000.

7. Ibid., pp. 61-62.

8. Ibid., pp. 71-73.

9. La formula per la trasformazione delle coordinate equatoriali in coordinate eclittiche si trova a p. 7 de I moti del cielo.

10. Ibid., pp. 81-103.

11. Ibid., pp. 291-467.

12. Ibid., p. 23.

13. Ibid., pp. 24-25, 69.

14. Le formule che utilizzano i gradi equatoriali sono le seguenti, dove AM sta per Ascensione Mista, ovvero Ascensione o Discensione Obliqua al proprio polo:

Per l’esplicazione e l’esemplificazione della tecnica v. gli scritti di F. Brunacci-F. M. Onorati e M. Fumagalli citati nella nota n. 2. A Fumagalli si deve la provvidenziale ri-comprensione e riscoperta del calcolo corretto delle sorti.

15. Per questa ragione gli unici aspetti che possono riguardare le sorti, così come l’Ascendente e il Medio Cielo, sono quelli nel mondo.

16. Si tratta, anche in questo caso, dell'importanza primordiale delle fasi della Luna (novilunio e plenilunio, le più significative, contengono in sé e “generano” ogni sviluppo successivo). Direttamente (con le sorti dei luminari) o indirettamente (con le sorti planetarie, tutte formate, anche, da Tyche e Daimon) è al ciclo luminoso del Sole e della Luna e alle sue passioni che le sorti ermetiche rimandano, ma ancorandolo sempre a un luogo e a un tempo determinati.

17. Cfr. P. d’Alessandria, op. cit., pp. 93, 187.

18. Cfr. ibid., pp. 87-88. Scrive G. Bezza in Arcana Mundi (Antologia del pensiero astrologico antico, vol. II, Rizzoli, Milano 1995, pp. 968-969): «Quanto alle altre sorti ermetiche, quella di eros e di ananke presentano diversi modi di estrazione nella maggior parte degli astrologi. La testimonianza più antica è in Vettio Valente e l'astrologo antiocheno, la cui autorità fu grande in Persia e in Islam, è seguito dagli astrologi arabi e da quelli del Medioevo latino. Nel giorno, eros si computa da tyche a daimon, viceversa nella notte. Anankê si computa nel giorno da tyche, nella notte l'inverso.» Nondimeno, con ogni probabilità, l'elenco delle sorti ermetiche riportato da Paolo è ancora precedente e in tutte le sorti planetarie ivi contenute gli astri sono uno dei tre fattori che costituiscono la sorte stessa. A me pare che Erôs e Anankê del Panaretos debbano essere considerate le originarie e autentiche sorti di Venere e Mercurio. E' sicuramente significativo che mentre le formule di queste ultime sono uniche nel vasto edificio delle sorti, quelle riportate, per esempio, da Albumasar ricorrono più volte. Nel suo catalogo (cfr. Arcana Mundi, op. cit., pp. 981-997), Erôs risulta uguale alla sorte della durata - 2° della I Casa -, a tre sorti dell'11° Casa (del successo - 1° -, dell'amicizia e dell'odio - 2° -, della bramosia - 5°) e, nella notte, alla sorte della sciagura - 3° della 12° Casa -; Anankê alla sorte della compravendita - 10° della X Casa - e, nel giorno, a quella della sciagura.

Le formule “mondane” delle sorti planetarie sono le seguenti, dove AM sta per Ascensione Mista, ovvero Ascensione o Discensione Obliqua al proprio polo:

19. J. Fallisi, op. cit., p. 71.

20. «E nel giorno la forza più grande è della sorte di fortuna, nella notte della sorte del genio, sebbene non si possa dire che il vigore medesimo che la sorte di fortuna ha nel giorno, anche la sorte del genio ha nella notte, poiché invero quest'ultima è subordinata alla prima.» (Albumasar in P. d'Alessandria, op. cit., p. 98).

21. «(…) nell'astrologia legata alla tradizione di Ermete, ai sette pianeti corrispondono le sette sorti 'prime ed universali, quelle dei sette astri'. Prime ed universali, in quanto scaturiscono dalla natura prima e assoluta di ciascun astro» (G. Bezza, Arcana Mundi, op. cit., p. 965). «È' manifesto invero che la sorte contiene in sé il significato puro e assoluto della natura dell'astro cui è riferita: 'La Luna diviene, per quanto è della sua natura, Tyche, il Sole Daimon…'. Per questo motivo Tolemeo pone la sorte della Luna tra il numero dei possibili afeti in una natività notturna e panselenica, ovvero perché essa contiene in sé una natura che proviene dal Sole e dalla Luna, dunque dai due princìpi vitali ancorché ad essi un terzo se ne aggiunge, l'oroscopo. Ma se nelle sette sorti planetarie è racchiusa la natura semplice e pura dei sette astri erranti, questa proprietà non appartiene a nessun altro luogo o corpo luminoso della figua celeste. In altri termini: in ogni natività un astro non produce pressoché mai un effetto che corrisponde alla sua natura prima e assoluta, per la semplice ragione che è quasi sempre associato ad un altro astro sia per presenza in una dignità di questi (domicilio, esaltazione, triplicità, confine), sia perché la sua natura si mescola ad un'altra, mediante figura o proporzione. Così, se Saturno si associa a Giove, mostra una certa liberalità che, di per sé, non possiede; con Marte aumenta la resistenza, ecc. Diversa è la natura delle sette sorti, la cui azione consiste nella trasmissione della sostanza essenziale dei sette astri, che non potrebbe essere giudicata in essi medesimi, a causa delle loro continue e incessanti passioni. Per questa ragione le sette sorti del Panaretos son dette pròtoi kai katholokòi, prime ed universali»» (Ibid, pp. 970-971).

22. Ibid., pp. 967-968.

23. P. d’Alessandria, op. cit., pp. 87-88. Scrive Paolo a proposito delle altre sei sorti: «(…) Tychê significa tutto ciò che concerne il corpo e le attività nel corso dell'esistenza; è altresì indicativa delle acquisizioni, della reputazione, della dignità. Daimon si trova ad esser signore dell'animo e del comportamento e della mente e di ogni fattibilità, sicché concorre a determinare l'agire. Eros significa i desideri e le brame che scaturiscono dall'impulso, sicché dispone dell'amicizia e del favore. (…) Tolma concorre a mostrare l'audacia e la macchinazione, la gagliardia ed ogni inganno. Nikê significa la fede e la buona speranza ed ogni assemblea e comunanza; concorre altresì a dar mano alle imprese e al buon successo. Nemesis viene dai geni sotterranei e da ogni cosa nascosta alla vista e dispone della <loro> manifestazione, dell'inoperosità, dell'esilio e della rovina e dell'affanno e della qualità della morte.» (Ibid., pp. 87-88).

24. Da un punto di vista filosofico Anankê è strettamente connessa a Nemesis, la sorte del grande malefico, come il concetto di necessità a quello di giustizia distributiva e compensativa, “punitrice di quanto, eccedendo la giusta misura, turba l'ordine dell'universo.” (Vocabolario della lingua italiana della Treccani, vol. III*, op. cit., p. 385).

25. F. Nietzsche, Genealogia della morale. Uno scritto polemico, Adelphi, Milano 1992, pp. 73-75.

26. Cfr. M. Fumagalli, I moti del cielo, op. cit., p. 14.

27. “Colui dal quale parte la proiezione per gradi”, secondo la definizione di Bonatti (cfr. R. Zoller, op. cit., p. 128). «Quanto all’oroscopo, dirige, essendo rispetto a codeste sorti nel mezzo, costituito come ritmico movimento del cosmo intiero.» (P. d’Alessandria, op. cit., p. 87) «Nella divinazione mediante le sorti i kleroi, piccoli sassi o ramoscelli, venivano gettati a terra o su una tavola consacrata, o scossi entro un’urna, o posti in una coppa debordante o gettati in una fonte o in una bacinella d’acqua predisposta. Allo stesso modo l’astrologo getta la sorte a partire dal grado che sorge, fondamento, o meglio ritmico movimento (basis) della sfera stellata, giudice mediano, che significa la vita e l’origine delle cose. Ecco pertanto che tutti gli astrologi di lingua greca esprimono il gesto del cleromante, ovvero il lancio delle sorti, con la parola appropriata: ekbàllein, gettare, lanciare.» (G. Bezza, Arcana Mundi, op. cit., pp. 969-970).


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